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L'Italia, un Paese ricco di eccellenze alimentari di qualità.

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Con ben 5047 specialità alimentari tradizionali censite sul territorio nazionale, l'Italia detiene oggi il record mondiale per varietà e ampiezza del patrimonio agroalimentare.

E' quanto emerge da una recente indagine della Coldiretti sulla base delle specialità alimentari ottenute secondo il rispetto di rigide regole e standard tradizionali protratti nel tempo per almeno venticinque anni.

Per quanto concerne le varie categorie, si tratta di 1.521 diverse tipologie di pane, pasta e biscotti, seguiti da 1.424 verdure fresche e/o lavorate, 791 salumi, prosciutti, carni fresche e insaccati vari, 497 formaggi, 253 piatti composti o prodotti della gastronomia, 147 bevande analcoliche e alcoliche, 167 prodotti di origine animale e 159 preparazioni di pesci, molluschi e crostacei.

Un'offerta enogastronomica di qualità che è ritornata ad essere la vera protagonista delle tavole degli italiani, grazie anche alla rete di vendita diretta dei mercati, delle fattorie e degli agriturismi di Campagna Amica.

Sul podio delle "Bandiere del Gusto" troviamo nell'ordine la Campania (515) seguita dalla Toscana (461) e dal Lazio fermo a quota 409. A seguire, si posizionano l'Emilia Romagna (388) e il Veneto (376), davanti al Piemonte con 388 specialità e alla Liguria che può contare su 294 prodotti. A ruota, seguono tutte le altre Regioni: la Puglia con 276 prodotti tipici recensiti, la Calabria (268), la Lombardia (248), la Sicilia (244), la Sardegna (193), il Friuli Venezia Giulia (169), il Molise (159), le Marche (151), l'Abruzzo (148), la Basilicata (144), la Provincia Autonoma di Trento (105), l'Alto Adige (90), l'Umbria (69) e la Valle d'Aosta con 12.

Particolarmente ricca, curiosa e colorata risulta anche la lista delle specialità tipiche nazionali come ad esempio la colatura di alici di Cetara, un liquido dal forte sapore inteso, frutto della sapiente stagionatura e pressatura delle alici salate; in Toscana sono molto apprezzati e conosciuti gli "stinchi di morto", particolari biscotti tipici della zona di Grosseto e Siena, dal colore giallo senape. 

Sempre la Coldiretti, segnala nel Lazio il fagiolo del purgatorio di Gradoli, seminato e coltivato da moltissimi anni in questa zona d'Italia, al punto da rappresentare uno dei piatti tipici del mercoledì delle ceneri, chiamato "pranzo del purgatorio", mentre in Emilia Romagna si apprezza una marmellata di mosto d'uva (Saba) con l'aggiunta di frutta.

La nostra Regione Veneto va fiera della sua polenta di montagna che si ottiene dalla farina di mais sponcio, sulla quale i Piemontesi spalmerebbero molto volentieri il brus, un prodotto lattiero - caseario derivato dalla lavorazione di robiole stagionate

Sicilia e Sardegna apprezzano rispettivamente la "sa pompia", un frutto sardo simile al limone che cresce solo nella zona della Baronia e lo squartucciato, un dolce tipico siciliano ripieno di fichi d'India protagonista indiscusso della Festa di San Giuseppe a Poggioreale, mentre i Friulani vanno fieri della loro porcaloca, un'oca intera disossata farcita con filetto di maiale, cucita a mano, legata cotta e affumicata.

Nella Regione Molise non si può rinunciare di certo alle sagnatelle, delle speciali fettuccine di farina di grano duro, mentre nelle Marche è tipica della tradizione contadina della zona di Jesi la lonza di fico, un dolce a base di fichi essiccati impastati con noci, mandorle e mistrà, avvolto in foglie di fico.

Il Comune di Campotosto in Abruzzo è molto famoso per la forma della sua mortadella, nota come "coglioni di mulo" così come quello lucano di Episcopia per le sue rsskatiedde cca muddiche, una pasta preparata con le molliche di pane.

Dalla zona del Trentino Alto Adige proviene la famosa luganega, la salsiccia che è un emblema della gastronomia provinciale, mentre dalle Valle Aurina dell'Alto Adige deriva il graukase, il formaggio più magro che esista in Italia. Infine l'Umbria è da sempre orgogliosa della sua fagiolina del Trasimeno, mentre la Valle d'Aosta annovera l'olio di noci.

Tutte queste specialità tipiche alimentari rappresentano un bene comune per l'intera collettività e costituiscono inoltre un prezioso patrimonio culturale che l'Italia può offrire con orgoglio ai tanti turisti nazionali e stranieri.

Inoltre, il primato nei prodotti tradizionali si aggiunge a quello dei prodotti a denominazione di origine protetta (Dop /IGP), che hanno raggiunto quota 292, e ai 523 vini italiani Docg, Doc e IGT. 

Come abbiamo ampiamente documentato la settimana scorsa, oggi il turismo enogastronomico sta vivendo un periodo sempre più aureo nel nostro Paese. Un italiano su tre ha recentemente dichiarato di aver svolto almeno un viaggio all'insegna dell'enogastronomia nel corso degli ultimi tre anni. Un dato che conferma come l'enogastronomia sia passata da un ruolo "accessorio" a vera e propria componente in grado di influenzare, sempre più, la scelta di viaggio degli italiani

 

 

 

  

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Come Roma fu per il vino ciò che gli Usa furono per la Coca - Cola: tutto.

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Il boom del vino a Roma ha una sua data di nascita: il 171 avanti Cristo. Certo, il vino per i nobili c'era già, portato alle ville patrizie dai vitigni della Magna Grecia. 

Ma è dal 171 che il vino diventa Vinum: cioè prima nutrimento e piacere di massa, poi strumento politico e militare, infine mito, icona di una civiltà. 

Fermatevi un attimo e iniziate a fate un viaggio nel tempo: siete nella calda estate del 171 a.C. e state passeggiando in un piccolo vicolo nei pressi del Foro Romano. 

L'Urbe, già megalopoli, si appresta a superare - essa sola - il milione di abitanti. Sono i demografi a consegnarci questi dati con una certa precisione: i loro studi hanno misurato attraverso la distribuzione gratuita del grano ai cives la crescita impetuosa della popolazione dell'Urbe. Se con Caio Gracco un modio di grano costa ancora cinque assi, sarà Caio Pulcro a rendere le distribuzioni gratuite, permettendo a studiosi e demografi di certificare che Pompeo distribuì il grano a 456 mila abitanti. Un welfare state smodato e populista, con grano e giochi del circo a gogò per ingraziarsi il consenso.

Quantificare gli abitanti di Roma è più complicato se ci affidiamo agli storici. Svetonio racconta che i beneficiari furono circoscritti da Cesare nei 150.000 fortunati che per il solo fatto di essere civies godevano del diritto di riempirsi la pancia. Il resto erano schiavi, liberti, servi: rottami della storia che tuttavia andavano nutriti anch'essi e che erano molto più numerosi dei loro padroni. 

Storici e demografi concordano però su un punto: questa massa mangiante fino al 171 a.C. si nutrì di una repellente pappa di cereali (la puls) pestando in lurida acqua ciò che la bontà di Roma dispensava loro. Ma nel fatidico 171 a.C, ecco che al Foro si apre il primo forno commerciale. Un fuoco ardente ospita uno strano impasto di cereali e poco dopo ne esce un oggetto croccante. Un milione di occhi guardano il pane e se ne innamorano. 

Però se si mangia occorrerà pure bere. Acqua se proprio si deve, altrimenti meglio di questa, ci sono il Sabino e il Tiburtino, l'Albano e il Signino.

Il vinum è nutrimento, caloria, benzina quotidiana per uomini - macchine. Oppure è pausa, intercalare, ebbrezza gaudente. A partire dal II secolo a.C. il suo boom è incontenibile. Ma per ora è ancora vinum con la v minuscola. 

Ora invece andiamo a curiosare nella storia di un'altra icona. Il dottor John Styth Pemberton era un farmacista di Atlanta. Appassionato di studi di botanica, si ficcò in testa di inventare una bevanda capace di sradicare dalla faccia della terra una piaga dell'umanità: il mal di testa

Di sicuro il farmacista mai avrebbe sospettato di avere inventato, l'8 maggio 1886 nel suo cortile di casa ad Atlanta, un'altra bevanda destinata ad assumere il prepotente ruolo di simbolo e mito globale. Venduto per cinque centesimi al bicchiere nella più grande drogheria di Atlanta, lo sciroppo all'inizio non decolla. 

Frank Robinson, contabile dell'impresa disegna anche un bel marchio dandogli uno strano nome di Coca - Cola e, inoltre, paga un'inserzione sulla gazzetta di Atlanta del 29 maggio 1886: "Deliziosa! Rinfrescante! Esilarante! Tonificante! Coca Cola, la soda nuova e popolare contenente le proprietà delle meravigliose piante di coca e l'estratto delle famose noci di cola." Contrariamente a ciò che si dice, non sempre però la fortuna aiuta gli audaci. Nel giro di un anno Pemberton si ammala, le vendite crollano e la società rischia il fallimento.

Bontà sua, nel 1888 la rileva un affarista di Atlanta: Asa Griggs Candler. Un uomo dominato da due uniche convinzioni: la forza della pubblicità e il mito della segreta ricetta della Coca - Cola. Poco importa che un recente scoop abbia rivelato proprio sulla gazzetta di Atlanta l'originaria alchimia della bevanda. Importa molto, invece, che lo sciroppo pur non curando affatto il mal di testa incominci a trovare i suoi primi estimatori. Ma ancora più decisivo è che Candler, nel frattempo, abbia assoldato il genio della pubblicità Wiliam D'Arcy. 

Così come un astuto e anonimo romano nel 171 a.C. capisce che con la diffusione del pane si può creare nell'Urbe un clamoroso business diffondendo il vinum, allo stesso modo D'Arcy sarà per molti lustri il geniale creatore delle campagne pubblicitarie che trasformano la Coca - Cola nella gioiosa pausa e nello status symbol dell'american way di ogni giorno. 

D'Arcy prima parte con un'avvenente ragazza che impugna una Coca - Cola, poi spiega che la nuova bevanda è come il baseball o l'apple pie: cioè alla portata di tutti, di ogni età, classe, sesso e condizione. Ovvio che mente: i suoi occhi geniali sono solo per il ceto medio emergente. 

La Coca - Cola "è un fantastico start per una promettente mattinata" ma è anche "la pausa ideale per il sabato sera" dei ceti medi che stanno facendo fortuna.

E persino se l'America precipita negli anni più bui della depressione, D'Arcy adatta il prodotto allo spirito dei tempi. E' passato poco più di un anno dal crollo di Wall Street del 1929, quando alla vigilia di Natale del 1931 in tutte le principali piazza d'America l'immacolata e sorridente immagine di Santa Claus Babbo Natale stringe in pugno, ottimista, una rasserenante bottiglietta. Ancora oggi quella pubblicità la ricorda ognuno di noi, anche chi non è americano.

Nella pubblicità, l'America è una grande casa calda, accogliente, protettiva: e dentro quella casa c'è la Coca - Cola. Esattamente come su ogni triclinio, in ogni taverna, negli angoli di ogni postribolo della Suburra ormai si scorge una piccola anfora. 

Così vinum & coke sono diventati la vita di ogni giorno. Parti integranti, imprescindibili di due civiltà. La rinfrescante, piacevole, inebriante pausa di due imperi. Ma ancora, per il momento, con la v e con la c minuscole. Anche se tutto è pronto per il grande salto. Per farli diventare i mitici Vinum & Coke.

Continuate a seguirci per conoscere come va a finire questa storia...! 

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Roma Capvt Vini "La sorprendente scoperta che cambia il mondo del vino".

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Roma è conosciuta in tutto il mondo per la sua storia, l'arte, la cultura, la politica oltre che per la sua centralità nella cristianità ma quasi nessuno conosce il suo primato in campo enologico.

Come tutte le grandi capitali, Roma è, da sempre, un importante mercato per il consumo di prodotti pregiati. La grande storia del vino è stata scritta dai Romani ed esportata poi nel resto d'Europa, spinti dalla loro irrefrenabile mania di espandersi e dominare.

Nei primi secoli dell'antica Roma il vino è una bevanda per ricchi patrizi. A partire dalla seconda metà del II secolo a.C., quando si diffonde il pane, anche il vino esplode, diventando presto fonte di nutrimento e piacere di massa. Nascono produttori, speculatori, grossisti e dettaglianti che accumulano capitali e fondano compagnie commerciali.

Diventa logico che a un certo punto qualche mercante sia colto dalla bramosia di passare dall'import all'export; e quale miglior strumento delle Legioni, dislocate in tutti gli angoli dell'Impero, per conquistare nuovi mercati?

Roma sceglie così la vite come coltivazione principale per i campi desolati delle colonie: uno strumento politico importante per esprimere la pax romana, per sposare in tempo di pace l'attività di una legione con la realtà agricola e sociale della terra occupata.

Poi, nel I secolo d.C., sale al potere Domiziano e, causa la carenza di grano, ordina l'espianto delle viti da tutte le provincie, inaugurando così un proibizionismo lungo duecento anni, fino a quando l'imperatore Marco Aurelio Probo abolisce questo editto puntando di nuovo sull'imperialismo viticolo, simbolo della volontà di durare in eterno.

Una scelta che cambierà per sempre la storia del vino fino ai nostri giorni.  

Giovanni Negri, giornalista e scrittore, nel suo libro Roma Capvt Vini "La sorprendente scoperta che cambia il mondo del vino" paragona la geniale scelta del vino e della vite come icona della magnificenza dell'Impero ad un'altra straordinaria bevanda simbolo della prima potenza mondiale, la Coca Cola.

Fu proprio durante la Seconda Guerra Mondiale che questa bevanda gassata fu portata in giro per il mondo dai marines. Ritenuta un importante strumento di pausa per i militari in guerra, presto si decisero di stanziare 64 linee di imbottigliamento nei vari fronti di combattimento perché all'esercito non mancasse mai la bevanda oggi simbolo dell'America.

Elisabetta Petrini, coautrice del libro, arricchisce ulteriormente questa importante ricostruzione della storia del vino italiano con un prezioso studio etimologico dei nomi dei principali vitigni, confermando senza alcun dubbio che Roma fu Caput Vini.

Il libro si conclude con un capitolo del professor Attilio Scienza che descrive il proprio studio sulla ricostruzione della storia del vino in Italia attraverso l'analisi del DNA di numerosi vitigni, arrivando alla conclusione che ben 78 vitigni europei hanno un progenitore in comune. Si tratta dell'Heunisch (in italiano "Unno"), quello che Probo con il suo editto decise d'impiantare ovunque.

Una parola che nella nostra lingua evoca l'invasione e il barbaro, ma cui radice etimologica ha tutt'altro significato, perchè Heunisch corrisponde in ceppo tedesco a << nostro>>.

Questo primo indizio sul significato di questa parola conferma come le popolazioni dell'Europa orientale e settentrionale da lungo tempo avessero convissuto con quel vitigno, al punto di battezzarlo come il nostro, un elemento consueto nella vita e nell'agricoltura attraverso i secoli.

Successivamente il vitigno con quel DNA assumerà con il passare del tempo nomi diversi, per una mappatura genetica, e per un vitigno che nel Medioevo rappresentava da solo ben i tre quarti della viticoltura continentale che disseta i popoli europei dall'Ungheria alla Gran Bretagna, dalla Germania alla Francia, dall'Italia alla Spagna.

Nel corso dei secoli questo vitigno sarà sottoposto a degli incroci con altri vitigni per migliorarne la sua qualità, dando vita alla gran parte dei vitigni moderni. 

Chardonnay, Riesling, Sauvignon, Ribolla e decine di altri celebrati vini e uve di oggi sono, secondo le analisi genetiche, nient'altro che i proponiti dell'unico vitigno impiantato quasi due mila anni fa dall'imperatore Probo.

In conclusione, Roma Capvt Vini è un libro che narra una storia davvero appassionante, basata su una sensazionale scoperta scientifica, che permette a chiunque di comprendere come il vino sia stato trasformato in mito ed icona dall'Impero Romano, con modalità simili a quelle che molti secoli dopo l'impero americano applicherà ad un'altra bevanda destinata ad incarnare una civiltà: la Coca Cola.

Un racconto a cavallo fra la scienza e la storia, per appurare definitivamente che Roma è stata Caput Vini. madre della stragrande maggioranza dei vini di oggi, italiani ed europei. 

Roma Capvt Vini - pag. 216 € 18,00.

Edizioni Mondadori.

Autori:

Giovanni Negri (giornalista, scrittore, produttore vinicolo nelle Langhe piemontesi, ex segretario del partito radicale ed ex parlamentare).

Elisabetta Petrini (laureata in scienze internazionali e diplomatiche all'Università di Bologna e in economia, istituzioni e finanza all'Università di Roma). 

 

 

 

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