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Il Vino Bellunese grande protagonista al Vinitaly 2018.

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Sarà la neoeletta Presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati ad inaugurare domenica 15 aprile la 52° edizione del Vinitaly "Salone Internazionale del Vino e dei Distillati", la più importante fiera per il settore vinicolo italiano e una tra le più prestigiose al mondo, che si svolge alla Fiera di Verona nel periodo compreso tra la fine di marzo e la prima settimana del mese di aprile.

Il Salone riunisce ogni anno produttori, importatori, distributori, ristoratori, tecnici, giornalisti e opinion leader ospitando più di cinquanta degustazioni tematiche di imprenditori vinicoli italiani ed internazionali, proponendo un ricco calendario di convegni, workshop ed eventi dedicati all'approfondimento delle principali tematiche legate al settore del vino.

La scorsa edizione del Vinitaly ha registrato 128.000 presenze provenienti da 142 paesi, 32.000 buyer stranieri (+ 8% rispetto al 2016) e oltre 4.270 aziende, andando così a premiare la spinta verso una sempre più netta separazione tra il momento riservato al business in fiera e il fuori salone dedicato ai wine lover nella splendida ed incantevole Città di Verona.

Fra pochi giorni il vino bellunese farà il suo ingresso da vero protagonista al Vinitaly 2018. Martedì 17 aprile nello stand di Confagricoltura (Padiglione 9 Area D) si svolgerà un incontro pubblico per dare il giusto risalto e valore alla realtà vinicola della Provincia di Belluno, che nel solco di un'antica tradizione, sta riscoprendo il proprio potenziale enologico con la scelta di vitigni autoctoni e internazionali che ben si adattano al terroir di montagna e al clima rigido delle Dolomiti Bellunesi.

A introdurre la tavola rotonda sarà Enzo Guarnieri, presidente del Consorzio di Tutela Coste del Feltrino, seguito dagli interventi di Giampaolo Cet, presidente di Piwi Veneto e da Diego Donazzolo, attuale presidente di Confagricoltura Belluno.

Guarnieri si soffermerà sul ripercorrere le principali tappe che hanno contribuito alla rinascita della viticoltura a Belluno, una zona di grande produzione di vino fino alla prima metà del Novecento (soprattutto nel Feltrino) con una resa di 80.000 ettolitri all'anno. Un patrimonio che purtroppo è andato perduto a causa dello scoppio della Grande Guerra e della comparsa della fillosseraperonospora e dell'oidio, ma ora  risulta in costante crescita. 

Nel corso degli anni le aziende che sono riuscite a sopravvivere hanno ricominciato a coltivare varietà autoctone come la Bianchetta, la Pavana, la Gata e alcune varietà internazionali che stanno dando buoni risultati nel nostro territorio montano come Pinot, Chardonnay, Merlot, Traminer aromatico e Manzoni Bianco.

Oggi le undici aziende che hanno dato vita al Consorzio Coste del Feltrino coltivano venti ettari con una produzione di 1.200 ettolitri di vino all'anno. Il mercato sta rispondendo bene sia in Europa che oltreoceano e, proprio per questo, Enzo Guarnieri si farà promotore di chiedere nei prossimi mesi l'assegnazione di una Denominazione di Origine Controllata (DOC) per tutelare maggiormente i vini delle Dolomiti Bellunesi.

Al termine dell'incontro seguirà un brindisi per far conoscere e scoprire ai numerosi ospiti presenti l'alta qualità dei vini bellunesi abbinati al formaggio Piave DOP. A questo speciale connubio d'eccezione si potrà anche degustare il nostro pregiato vino rosso Granpasso Uve Teroldego annata 2010 - Carattere Deciso che, proprio l'anno scorso, ha ottenuto la medaglia d'oro al Concorso "Wine of The Year 2017" organizzato dalle Associazioni Via Claudia Augusta Altinate di Germania, Austria e Italia e, inoltre, anche altri premi e riconoscimenti ufficiali tra cui la medaglia d'argento al Concorso "BeoWine Fair" di Belgrado, la più importante fiera enologica del Sud Est Europa. 

 

 

 

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Con la Potatura Invernale a Pian delle Vette riprendono i lavori nei vigneti

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La vite è una pianta molto particolare che ama il sole ed è grazie all'energia e al caldo che dalla primavera fino al termine del periodo estivo si fa bella con una chioma verde rigogliosa, ornata di fiori e con grappoli grandi e succosi.

Con l'arrivo dei primi freddi autunnali e delle basse temperature invernali, la vite entra in uno stato di letargo vegetativo che dura tutto l'inverno, contrassegnato dalla graduale caduta delle foglie che, dapprima, si colorano di splendide tonalità autunnali e, successivamente, un po' alla volta si adagiano al suolo.

Proprio la perdita delle foglie indica il momento in cui la vite entra nella fase di riposo invernale, nell'attesa di riprendere l'attività produttiva nella primavera successiva. In questo periodo dell'anno i lavori che si rendono necessari nel vigneto sono diversi, ma quello a cui i viticoltori riservano maggiore attenzione è la potatura secca, o invernale, un'importantissima pratica agronomica in grado di fare la differenza nel breve e nel lungo periodo definendo i presupposti per la nuova produzione.

Che cos'è la potatura secca e a che cosa serve?

La potatura secca, o invernale, è una pratica di fondamentale importanza per la corretta gestione del vigneto, poichè consente di conseguire l'equilibrio tra l'attività vegetativa (ovvero lo sviluppo delle foglie) e l'attività produttiva della pianta, con ripercussioni dirette sia sulla resa che sulla qualità dell'uva; la potatura invernale persegue inoltre lo scopo di assicurare la longevità produttiva della pianta e di controllarne lo sviluppo nello spazio assegnatole, mantenendo la forma di allevamento impostata.

Prima di iniziare la potatura è necessario sapere che la vite produce prevalentemente sui tralci dell'anno che si sviluppano dalle gemme presenti sul legno dell'anno precedente; in secondo luogo la vite produce anche sui succhioni ( tralci dell'anno originatesi sul legno di più di due anni), nonchè sulle femminelle (germogli sorti da gemme pronte, vale a dire gemme che si sviluppano nello stesso anno dalla loro formazione) inserite sui tralci dell'anno.

Il "pianto" della vite.

Il pianto della vite è il segnale che indica la fine del periodo opportuno per effettuare la potatura invernale, ovvero quel particolare momento dal quale le porzioni della pianta non possono essere più tagliate in quanto questa ne risente e soffre, piangendo.

La fase del germogliamento è preceduta da un fenomeno tipico della vite chiamato per l'appunto "pianto", ossia l'emissione di liquido dai vasi xilematici a livello dei tagli di potatura: questo è dovuto da una parte alla riattivazione del metabolismo degli zuccheri e alla conseguente riattivazione della respirazione cellulare e dall'altra all'elevato livello di assorbimento che caratterizza le radici, che tocca il massimo proprio in questa fase.

Il Carico di Gemme.

Il carico di gemme lasciato per ciascuna pianta condiziona il numero di grappoli ottenibili, pertanto quest'ultimo deve essere scelto considerando la fertilità del suolo e la vigoria espressa dalla combinazione vitigno/portainnesto, in modo da poter raggiungere un equilibrio ottimale tra le foglie e i grappoli, fondamentale per l'ottenimento di uve di alta qualità.

Più in generale, si può ritenere che una pianta sia in equilibrio quando i germogli arrestano la loro crescita in concomitanza con l'invaiatura, che si manifesta con il cambiamento di colore degli acini e della loro consistenza, senza entrare così in concorrenza con la maturazione del grappolo

Un numero di grappoli eccessivamente elevato rispetto alle potenzialità della pianta contrasta con la possibilità di ottenere uva di qualità, in quanto non consente di poter raggiungere un adeguato livello di maturazione. Analogamente però anche un numero di grappoli eccessivamente basso può contrastare con la qualità, dato che può determinare una maturazione troppo rapida che non consente un'adeguata evoluzione e un necessario accumulo delle sostanze fenoliche, che sono alla base della struttura e del colore finale del vino. Inoltre, in condizioni di elevata fertilità del suolo e di buona disponibilità di acqua, un numero troppo scarso di grappoli può stimolare la pianta a continuare a vegetare anche dopo l'invaiatura, a scapito della maturazione dell'uva e della qualità del vino che se ne otterrà.

Per quanto concerne il numero di gemme (o nodi) lasciati per ciascuna vite, il carico si considera basso se inferiore a 10 gemme, medio se compreso tra 10 e 30 gemme e, infine, alto se superiore a trenta gemme.

Un errore da evitare assolutamente di compiere è quello di aumentare il carico di gemme per andare a controbilanciare un'eventuale minore produzione. In tutti questi casi è bene procedere a "scaricare" la pianta, lasciando un numero ridotto di gemme e procedere a ricercare all'interno della propria azienda vitivinicola le cause che possono aver determinato la riduzione di produzione.

Qual'è il periodo migliore per eseguire la potatura secca della vite?

La potatura secca deve essere eseguita nel corso dell'inverno, periodo in cui la pianta arresta la propria attività. Nelle zone più fredde dell'Italia settentrionale è preferibile iniziare a potare nella seconda metà dell'inverno (febbraio - marzo), quando è trascorso definitivamente il periodo più freddo dell'anno, perchè in questo modo si ha la possibilità di andare ad eliminare i tralci con gemme eventualmente danneggiate dalle basse temperature.

Nelle regioni meridionali invece è possibile anticipare la potatura di qualche settimana. Ad ogni modo, è buona norma terminare la potatura prima dell'inizio del pianto, che segnala il risveglio dell'apparato radicale della pianta.

L'intensità dell'intervento dovrà essere proporzionata alla vigorosità del vigneto. Di fronte ad un vigneto debole, l'intervento sarà misurato, come inferiore sarà il numero di gemme che verranno risparmiate. In ogni caso, bisognerà sempre assicurare ai tralci e quindi ai futuri grappoli una corretta esposizione, per luminosità e aerazione.

Alla potatura invernale si aggiunge la potatura estiva (o verde) che si effettua durante lo sviluppo vegetativo della pianta e contribuisce, come quella secca, a concentrare lo sviluppo vegetativo sugli organi che costituiscono la struttura produttiva della pianta, condizionando il microclima della chioma in modo da favorire la maturazione dei grappoli, assicurando condizioni meno favorevoli agli attacchi di patogeni

A Pian delle Vette si potano i vigneti utilizzando le tecniche indicate nel metodo Simonit & Sirch.

Sperimentato per la prima volta in Friuli Venezia Giulia nel 1988, questo metodo di potatura oggi è conosciuto a livello internazionale ed è applicato da oltre un centinaio di aziende agricole europee, tra cui anche Pian delle Vette Cantina di Montagna, situata a Vignui di Feltre, un piccolo borgo rurale immerso nella quiete dei luoghi delle Dolomiti Bellunesi.

Ad inventarlo sono stati Marco Simonith e Pierpaolo Sirch, due agronomi friulani, i quali partendo dalla constatazione che spesso le viti si ammalano e si infettano per una squilibrata impostazione delle potature, hanno studiato gli antichi vitigni italiani ed europei applicando il loro metodo alle esigenze della moderna viticoltura e ai sistemi di allevamento più intensivi, come la Spalliera e il Guyot.

La chiave di volta per risolvere le problematiche del deperimento dei vigneti e della riduzione della loro produttività, coincide proprio con un corretto metodo di potatura, che si può applicare a tutti i sistemi di allevamento della vite.

Il segreto sta nell'effettuare con un approccio individuale, pianta per pianta, una potatura ramificata con piccoli tagli sul legno giovane, poco invasivi sul sistema di conduzione della vite ed orientati sempre allo stesso lato, per separare il legno vivo da quello secco che si forma dopo un taglio di potatura.

I suoi risultati hanno dimostrato che le piante dotate di un sistema linfatico integrato, mostrano maggiore omogeneità di risposta vegeto - produttiva, si sviluppano in modo conforme risultando così molto più longevi e costanti nella qualità del prodotto finale. 

 

 

 

 

 

 

 

 

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A Pian delle Vette la coltivazione del vigneto è sostenibile.

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Prosegue a Pian delle Vette, Azienda Agricola situata ai piedi delle Vette Feltrine, nell'area del Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesiil percorso verso una coltivazione più consapevole e sostenibile dei nostri vigneti con il consolidamento della salute delle viti. Dopo aver impostato la loro potatura secondo il metodo Simonit & Sirch, abbiamo interpellato l'agronomo Luca Conte per effettuare un'analisi esplorativa della fertilità del nostro suolo, che come vedremo più avanti risulta essere in buono stato di salute.

Il metodo di potatura Simonit & Sirch.

Sperimentato per la prima volta in Friuli Venezia Giulia nel 1988, questo metodo di potatura oggi è conosciuto a livello internazionale ed è applicato da oltre un centinaio di aziende europee distribuite tra Italia, Francia, Austria, Svizzera, Spagna, Germania e Portogallo.

Ad inventarlo sono stati Marco Simonith e Pierpaolo Sirch, due agronomi friulani i quali, partendo dalla constatazione che spesso le viti si ammalano e si infettano per una squilibrata impostazione delle potature, hanno studiato gli antichi vitigni italiani ed europei applicando il loro metodo alle esigenze della moderna viticoltura e ai sistemi di allevamento più intensivi, come la spalliera e il guyot.

La chiave di volta per risolvere le problematiche del deperimento dei vigneti e della riduzione della produttività, coincide proprio con un corretto metodo di potatura, che si può applicare a tutti i sistemi di allevamento della vite. Il segreto sta nell'effettuare con un approccio individuale, pianta per pianta, una potatura ramificata con piccoli tagli sul legno giovane, poco invasivi sul sistema di conduzione della vite ed orientati sempre allo stesso lato, per separare il legno vivo da quello secco che si forma dopo un taglio di potatura.

I suoi risultati hanno dimostrato che le piante dotate di un sistema linfatico integro, mostrano maggiore omogeneità di risposta vegeto - produttiva, si sviluppano in modo conforme risultando così più longeve e costanti nella qualità del prodotto finale.

Ecco un video su questo metodo di potatura che salvaguarda il flusso linfatico della vite.

  

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La storia dei nomi dei vini

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Il nome è un grande specchio, chinatevi ad osservarlo. Trovate riflessi la vita, l'uomo, le verità e gli inganni. Saper leggere un nome, vi farà stare un grandino più in alto nella contemplazione di una storia. 

Per esempio, l'origine del termine Legione, spiega come il Legere latino abbia un significato diverso dal Leggere in italiano. Raccogliere, adunare, arruolare: è questo il Legere della superpotenza che crea, arruola la Legione, strumento principe dell'espansione imperiale. Ed è proprio racchiuso nelle legioni romane il filo di questa nuova storia, che vi aiuta a scoprire come la civilizzazione di Roma Caput Vini non sia solo geneticamente scolpita nel DNA di un vitigno: da migliaia di anni questa epopea è immortalata anche nei nomi dei vini.

Come ormai ben sapete, nel 280 d.C. l'imperatore Marco Aurelio Probo cancella l'editto di Domiziano, sancisce la fine dei rifornimenti di vino con l'ingestibile trasporto di botti da Aquileia ai territori dove sono stanziate le legioni, fa selezionare un vitigno e lo affida alle legioni imponendo il suo impianto in sterminati territori sottoposti. 

Bandita da Domiziano, la coltivazione della vite è trasformata da Probo nello strumento per fissare i confini dell'impero e nell'attività operosa delle campagne in tempo di pace. Quando sale al potere Probo dispone di una massa d'urto di circa 450.000 uomini, divisi in 38 legioni. 

Sappiamo per certo che il nuovo imperatore di legioni ne creò almeno altre due. Sono almeno quaranta le legioni di Probo potenzialmente incaricate non solo di difendere l'impero e guerreggiare, ma anche di piantare e coltivare la vite. Un'opera immensa, della quale possiamo ricostruire le tracce precise anche attraverso i nomi di vini e vigneti

BURDIGALA E VITIS BITURCA

Bordeaux e Cabernet

Nel III secolo d.C. Burdigala è la capitale amministrativa dell'Aquitania romana: una delle tre parti nelle quali Giulio Cesare ha diviso la Gallia conquistata. In quest'epoca Decimo Magno Ausonio, uno degli uomini più colti dell'impero, descrive nell'Ordo urbium nobilium e in diverse altre opere le terre verdeggianti di vigne lungo il fiume, elogiando la città come un mirabile territorio di vino.

Gli impianti delle viti hanno a Burdigala un inizio molto complicato. L'area è infestata di paludi, ne il terreno ghiaioso inizialmente ispira i coloni romani, tutt'altro che convinti che in una regione più nordica e dal clima così ostile la vigna possa dare i suoi frutti migliori. Altrettanto complesso risulta il percorso militare e commerciale che i legionieri e le viti si aprono verso Burdigala: di fatto, il primo collegamento diretto fra il Mediterraneo e le spiagge dell'Atlantico.

Si deve a Roger Dion la descrizione dettagliata dell'itinerario denominato Seuil de Narouze, che mosse da Narbo (l'attuale Narbone, primo luogo di Francia dove i romani piantarono e coltivarono la vite) - per raggiungere Tolosa e quindi Agen, affacciandosi infine sull'impero orizzontale dell'Aquitania, allora popolata dai Galli originari dell'attuale regione di Bourges, denominati Bituriges Vivisques. 

E' questo il nome con il quale gli occupanti battezzarono la prima uva di Burdigala, che per secoli sarà Biturica e fonderà in un bimillenario matrimonio l'indissolubile rapporto tra Bordeaux - Burdigala e Cabernet Biturica. 

Quanto all'origine della vite di Burdigala, gli agronomi romani concordano nella descrizione di una vite importata, più robusta in quanto più adatta ai climi freddi. 

Per Columella, la Biturica proveniva dal porto di Durazzo; da li i romani avrebbero diffuso la Biturica in Aquitania e in Spagna, dove prese il nome di Cocolubis. Sull'ibrida culla insiste anche Plinio il Vecchio, che narra la Biturica come un incrocio tra una varietà importata dai romani e un vitigno selvaggio delle zone della penisola iberica.

Anche Columella, in tal senso, cita il vitigno denominato Balisca, coltivato in diverse province romane e in particolare nella zona della Rioja, molto vicino al Bordolese. 

SANGUIS IOVIS E MONS ILCINUS

Sangiovese e Montalcino. 

Per Giacomo Tachis, uno dei più autorevoli padri dell'enologia italiana, il Sangiovese sta all'Italia come il Cabernet sta alla Francia: sono vini che esprimono una forte identità viticola e vinicola di un Paese.

Entrambi affondano e confondono la propria storia con quella di Roma Caput Vini. Ai tempi dei romani i vini prodotti nelle zone della Romagna e della Toscana erano noti ed è latina l'origine del nome Sangiovese (da Sanguis Jovis), ovvero sangue di Giove, con tutta probabilità il vitigno che frutta nel cesenate il Curva Caesena citato da Plinio il Vecchio.

I romani giunsero nel territorio dell'attuale Romagna intorno al 250 a.C. Il console Emilio Lepido costruisce la via Emilia nel 187, possente fattore di sviluppo di scambi e commerci che influenza profondamente anche la viticoltura. 

Forum Livii oggi Forlì e Forum Popili poi Forlimpopoli saranno altrettante tappe del Sangiovese, insieme alla Cesena dei ricchi ritrovamenti di anfore e ad Ariminum, il porto di Rimini considerato allora la più importante base commerciale dell'Adriatico.

Meno prestigioso, almeno secondo quanto riferito da Marziale, il troppo abbondante vino liquidato dal poeta in due epigrammi: << A Ravenna preferirei possedere una cisterna piuttosto che una vigna: l'acqua la potrei vendere a un prezzo molto più alto>>.

Il percorso imboccato dal Sangiovese è diverso. Scavalcando l'Appenino, il vitigno trova in Toscana il suo territorio di eccellenza, poi scende ancora a sud per trasformarsi in uva simbolo della penisola con ben l'11% della superficie viticola nazionale.

Nel corso dei secoli il Sangiovese si è differenziato in numerosi cloni e diversi territori. In Toscana si distinguono due grandi famiglie: il Sangiovese grosso e il Sangiovese piccolo.

Espressione più alta del Sanguis Jovis. il nome del Brunello ritrova nella romanità un altro eco. I primi insediamenti fortificati dell'area di Montalcino risalgono all'epoca etrusca e ne sono ancora una testimonianza i resti dell'area archeologica di Poggio Civitella. 

Poi la romanitas battezzerà un monte coperto di verdi lecci in Mons Ilcinus. Così con il Sanguis Jovis di Mons Ilcinus, Roma Caput Vini genera uno dei più grandi vini d'Italia. 

 

 

 

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Heunisch, il padre dei vitigni europei.

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Nei primi anni del 2000, grazie ai marcatori molecolari e all'analisi del DNA, un equipe internazionale di scienziati è impegnata a ricostruire l'albero genealogico della vite in Europa: uno studio che abbraccia tutti i vitigni del continente. Più passano i mesi, più i ricercatori constatano stupiti la presenza genetica di un padre comune in una quantità imponente di odierni vitigni.

Il suo nome medievale, risalente al primo periodo post romano è Heunisch, in italiano Unno. Una parola che nella nostra lingua evoca l'invasione e il barbaro, ma la cui radice etimologica ha tutt'altro significato, perché Heunisch corrisponde in ceppo tedesco a "nostro". Questo primo indizio sul significato di questa parola conferma come le popolazioni dell'Europa orientale e settentrionale da lungo tempo avessero convissuto con quel vitigno, al punto da battezzarlo come il "nostro".

Successivamente questo vitigno assumerà con il passare del tempo nomi diversi per una mappatura genetica del tutto identica, e per un vitigno che nel Medioevo rappresenta da solo ben i tre quarti della viticoltura continentale.

La ragione del suo successo produttivo è legato a caratteristiche enologiche non particolarmente nobili.

L'Heurisch - Unno è molto produttivo ma poco zuccherino; fa grandi quantità ma non eccelsa qualità ed è un vitigno che si adatta a climi assai più rigidi rispetto al tepore mediterraneo.

Rappresenta, quindi, la pianta ideale per essere piantata ovunque. Caratteristiche così poco qualitative che presto portano ad assegnare ai successivi nomi dell'Heunisch un significato dispregiativo e ad indurre i viticoltori europei, man mano che affinano le proprie tecniche, a usare si questo vitigno ma ad incrociarlo con altri, in modo da abbandonare definitivamente un'uva di scarsa qualità a favore di frutti più significativi ed enologicamente più appaganti.

Non è certo casuale che dopo un Medioevo nel quale il "nostro" Heunisch rappresentava il 75% della viticoltura europea, nei secoli successivi sia sostituito da alcuni suoi figli come il Traminer, il Riesling e il Rulaender, nati dall'incrocio di questo vitigno con altri meno diffusi, meno conosciuti ma con l'andare del tempo rivelatesi qualitativamente interessanti.

Antropologi, archeologi, botanici e linguisti si sono mobilitati per rispondere a tre precise domande: da dove viene l'Heurisch, chi lo ha diffuso e perchè lo ha diffuso?

La moderna genetica individua il territorio di nascita di questo vitigno in un areale compreso tra la Stiria (l'odierno cuore verde dell'Austria), la Slovenia, la Croazia e l'Ungheria.

E' in quest'area che qualcuno selezionò il vitigno, affidandolo poi a delle mani misteriose che lo diffusero in ogni parte d'Europa. Quanto agli archeologi, inizialmente il loro contributo si rileva marginale, finché non appaiono due mappe.

La prima ricostruisce le tracce archeologiche della fabbricazione di botti nel continente europeo, stabilendo l'epoca storica di questi insediamenti. La seconda evidenzia tutti i luoghi dove si trovano lapidi funerarie, cippi o monumenti dedicati ai bottai in epoca romana. 

Sono proprio queste due mappe a fornire all'equipe una nozione storico - enologica tanto importante quanto precisa: vi è stato un momento nel quale i romani si resero conto che il vino prodotto nell'Italia centrale e meridionale non sarebbe stato sufficiente a rifornire l'esercito. Di qui la scelta di spostare il baricentro della viticoltura più a nord e di modificare le tipologie di trasporto del vino, passando dall'anfora alla più solida botte.

Dapprima i romani individuarono nell'area di Aquileia e nell'odierno Veneto il luogo ideale per coltivare uva, fare vino e trasportarlo. Le tracce delle botti dimostrano agli archeologi come da Adria ad Aquileia i nuovi contenitori partano alla volta del Danubio e del Reno, i due fiumi che le legioni sono chiamate a presidiare con forza. Poi, all'improvviso, questo flusso di botti si interrompe, queste spariscono e con loro anche i bottai. 

La distanza tra il luogo di produzione del vino e quello del suo consumo è diventata troppo ampia. Il costo e i tempi di rifornimento insostenibili. La stessa quantità di uva e vino prodotti sono inadeguati rispetto alle esigenze delle Legioni e dei rispettivi seguiti.

Un terzo indizio archeologico avrebbe forse consentito di risolvere il mistero anzitempo, ma distratti da una ricerca così ampia e documentata gli studiosi non lo mettono subito a fuoco: i più antichi falcetti agricoli, indispensabili all'impianto della vite, fanno la loro apparizione lungo il Reno e il Danubio negli anni successivi alla scomparsa dei grandi traffici di botti da Aquileia verso il nord.

Nonostante questa traccia, i genetisti non risolvono subito questo secondo quesito. Chi ha fisicamente piantato il vitigno Heurisch geneticamente rintracciato ai giorni nostri in quasi tutti i vitigni europei?

Inizialmente i ricercatori si concentrano sull'arrivo degli Unni di Attila nel 451, quando occuparono la francese Troyes. Ma possono i soli Unni aver imposto un uso così diffuso di un vitigno? Improbabile.

Si ragiona allora sulla migrazione degli Ungari nel 905 in Francia, e da li sulla probabile diffusione del vitigno nell'Europa Medioevale. Si tratta però di piste limitate rispetto alla possanza del fenomeno Herisch, sulle quali i ricercatori sono scivolati a metà della loro ricerca. Quando tuttavia si moltiplicano i ritrovamenti archeologici relativi all'uso di botti lungo il Danubio e il Reno, i sospetti cominciano a farsi largo. 

Sono gli storici a dare in questa fase un contributo prezioso. I testi di Cesare e Tacito confermano che in Germania non esisteva nessuna forma di viticoltura, ma un grande passo avanti nella ricostruzione del puzzle è dato dalla testimonianza di Dione Cassio, che certifica che intorno al 229 furono realizzati diversi impianti di vigneti lungo il Reno e il Danubio, per rifornire di vino le legioni e per rinsaldare la presenza di Roma.

A questo punto il mosaico comincia a comporsi e ad essere suffragato da prove incontrovertibili.

E' la storia a confermare il percorso di Marco Aurelio Probo, l'uomo che ha abolito l'editto di Domiziano e imposto l'impianto di viti in Europa. Con una sola mossa politica l'imperatore risolve il problema di un vino veneto la cui produzione è inadeguata per l'esercito; economizza tagliando il dispendioso trasporto da Aquileia sino ai confini più estremi, rendendo superflua la produzione delle botti destinate alle regioni più a nord dell'attuale Germania e agli avamposti più ad est dell'odierna Ungheria; consegna alle legioni la vite che rappresenta uno strumento di autosufficienza alimentare, un insediamento fisico indispensabile per definire i confini lungo i quali i legionari si devono attestare, un'attività agricola capace di integrare i soldati con le popolazioni soggiogate. 

Una mossa lungimirante, tutta racchiusa in una minuscola pianta. Dopo un altro anno di ricerche saranno gli archeologi a confermare di nuovo la svolta di Probo. Gli scavi, che sino alla sua epoca mostrano grande ricchezza di ritrovamenti di doghe con citazioni riferite al vino e che attestano il trasporto fluviale di vino prodotto in altri luoghi, lasciano a un tratto spazio al ritrovamento di ben altri oggetti, risalenti ad epoca di poco successiva. Dalla terra non emergono più tracce di botti e di legni, bensì solide Falces putatoriae.

E' sulla riva sinistra del Reno e sulla destra del Danubio, che gli scavi restituiscono le falci romane della coltivazione della vite, usate dalle comunità dei legionari - coloni. Il luogo preciso della selezione del vitigno delle legioni resta avvolto nel mistero: il crinale lungo il quale ciò accade non è più lungo di 300 Km, muovendo nel territorio che abbraccia parte dell'Austria e l'attuale Ungheria, passando proprio attraverso le terre natali di Probo. Sconcerta, per contro, la contemporaneità degli impianti fiorenti lungo il Danubio e il Reno e l'interruzione dei movimenti di botti dalla laguna veneta attraverso le Alpi.

Ancor più stupisce il radicamento in tutta Europa di un vitigno capace di dare grande quantità di vino e di maturazione precoce, adatto anche ai climi nordici, e la longevità di un vitigno che arriverà a produrre un'impressionante massa di liquido lungo tutto l'alto medio evo. 

Gli ultimi dettagli che sanciscono la clamorosa teoria, arrivano da ricerche parallele e interdisciplinari. Si scopre che già nel 278 d.C, nei primi vigneti piantati dalle legioni di Probo attorno a Vindobona (la Vienna che all'epoca già contava 20.000 abitanti) le varietà più importanti sono chiamate Heunischen.

Dalla Francia giunge l'esito di una ricerca che segnala come due anni dopo, è piantato nel lionese un vigneto denominato Monte d'Oro: il nome è identico a quello assegnato da Probo alle colline di vigneti che egli stesso volle impiantati nella sua città natale, la Sirmio Illirica. Identici nel nome e del tutto affini in termini genetici risultano infine essere i più antichi vigneti attorno alla città tedesca di Heidelberg.

Ovunque le Legioni piantano le viti con lo stesso vitigno. La possente macchina da guerra di Roma pianta più intensamente in Pannonia e lungo il Reno; con minore furia legionaria ma analoga intensità i romani piantano nella Gallia ormai soggiogata, dove invece si affermerà una pacifica e assai fruttuosa visione agricolo - commerciale del vino. E lo stesso accade in Britannia, nell'Iberia più calda e nei Balcani, nell'Italia del nord e nelle odierne Svizzera e Austria.

Ma ovunque, sempre e comunque le legioni di Probo ricoprono l'Europa di viti dell'Heunisch, l'Unno, il Nostro. Ora il suo mistero è svelato. Sappiamo da dove viene, chi lo ha piantato e perché lo fece. 

 

 

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Roma Capvt Vini "La sorprendente scoperta che cambia il mondo del vino".

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Roma è conosciuta in tutto il mondo per la sua storia, l'arte, la cultura, la politica oltre che per la sua centralità nella cristianità ma quasi nessuno conosce il suo primato in campo enologico.

Come tutte le grandi capitali, Roma è, da sempre, un importante mercato per il consumo di prodotti pregiati. La grande storia del vino è stata scritta dai Romani ed esportata poi nel resto d'Europa, spinti dalla loro irrefrenabile mania di espandersi e dominare.

Nei primi secoli dell'antica Roma il vino è una bevanda per ricchi patrizi. A partire dalla seconda metà del II secolo a.C., quando si diffonde il pane, anche il vino esplode, diventando presto fonte di nutrimento e piacere di massa. Nascono produttori, speculatori, grossisti e dettaglianti che accumulano capitali e fondano compagnie commerciali.

Diventa logico che a un certo punto qualche mercante sia colto dalla bramosia di passare dall'import all'export; e quale miglior strumento delle Legioni, dislocate in tutti gli angoli dell'Impero, per conquistare nuovi mercati?

Roma sceglie così la vite come coltivazione principale per i campi desolati delle colonie: uno strumento politico importante per esprimere la pax romana, per sposare in tempo di pace l'attività di una legione con la realtà agricola e sociale della terra occupata.

Poi, nel I secolo d.C., sale al potere Domiziano e, causa la carenza di grano, ordina l'espianto delle viti da tutte le provincie, inaugurando così un proibizionismo lungo duecento anni, fino a quando l'imperatore Marco Aurelio Probo abolisce questo editto puntando di nuovo sull'imperialismo viticolo, simbolo della volontà di durare in eterno.

Una scelta che cambierà per sempre la storia del vino fino ai nostri giorni.  

Giovanni Negri, giornalista e scrittore, nel suo libro Roma Capvt Vini "La sorprendente scoperta che cambia il mondo del vino" paragona la geniale scelta del vino e della vite come icona della magnificenza dell'Impero ad un'altra straordinaria bevanda simbolo della prima potenza mondiale, la Coca Cola.

Fu proprio durante la Seconda Guerra Mondiale che questa bevanda gassata fu portata in giro per il mondo dai marines. Ritenuta un importante strumento di pausa per i militari in guerra, presto si decisero di stanziare 64 linee di imbottigliamento nei vari fronti di combattimento perché all'esercito non mancasse mai la bevanda oggi simbolo dell'America.

Elisabetta Petrini, coautrice del libro, arricchisce ulteriormente questa importante ricostruzione della storia del vino italiano con un prezioso studio etimologico dei nomi dei principali vitigni, confermando senza alcun dubbio che Roma fu Caput Vini.

Il libro si conclude con un capitolo del professor Attilio Scienza che descrive il proprio studio sulla ricostruzione della storia del vino in Italia attraverso l'analisi del DNA di numerosi vitigni, arrivando alla conclusione che ben 78 vitigni europei hanno un progenitore in comune. Si tratta dell'Heunisch (in italiano "Unno"), quello che Probo con il suo editto decise d'impiantare ovunque.

Una parola che nella nostra lingua evoca l'invasione e il barbaro, ma cui radice etimologica ha tutt'altro significato, perchè Heunisch corrisponde in ceppo tedesco a << nostro>>.

Questo primo indizio sul significato di questa parola conferma come le popolazioni dell'Europa orientale e settentrionale da lungo tempo avessero convissuto con quel vitigno, al punto di battezzarlo come il nostro, un elemento consueto nella vita e nell'agricoltura attraverso i secoli.

Successivamente il vitigno con quel DNA assumerà con il passare del tempo nomi diversi, per una mappatura genetica, e per un vitigno che nel Medioevo rappresentava da solo ben i tre quarti della viticoltura continentale che disseta i popoli europei dall'Ungheria alla Gran Bretagna, dalla Germania alla Francia, dall'Italia alla Spagna.

Nel corso dei secoli questo vitigno sarà sottoposto a degli incroci con altri vitigni per migliorarne la sua qualità, dando vita alla gran parte dei vitigni moderni. 

Chardonnay, Riesling, Sauvignon, Ribolla e decine di altri celebrati vini e uve di oggi sono, secondo le analisi genetiche, nient'altro che i proponiti dell'unico vitigno impiantato quasi due mila anni fa dall'imperatore Probo.

In conclusione, Roma Capvt Vini è un libro che narra una storia davvero appassionante, basata su una sensazionale scoperta scientifica, che permette a chiunque di comprendere come il vino sia stato trasformato in mito ed icona dall'Impero Romano, con modalità simili a quelle che molti secoli dopo l'impero americano applicherà ad un'altra bevanda destinata ad incarnare una civiltà: la Coca Cola.

Un racconto a cavallo fra la scienza e la storia, per appurare definitivamente che Roma è stata Caput Vini. madre della stragrande maggioranza dei vini di oggi, italiani ed europei. 

Roma Capvt Vini - pag. 216 € 18,00.

Edizioni Mondadori.

Autori:

Giovanni Negri (giornalista, scrittore, produttore vinicolo nelle Langhe piemontesi, ex segretario del partito radicale ed ex parlamentare).

Elisabetta Petrini (laureata in scienze internazionali e diplomatiche all'Università di Bologna e in economia, istituzioni e finanza all'Università di Roma). 

 

 

 

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I principali vitigni coltivati in Italia.

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La vite in Italia è coltivata fin dal secondo millennio avanti Cristo e non c'è regione italiana che non abbia i suoi vigneti. Da nord a sud, in collina, in pianura, in montagna, persino sulle isole più piccole, la vite cresce rigogliosa.

Grazie alla sua conformazione geografica ed alla sua storia, l'Italia è il paese al mondo con la maggiore varietà di vitigni.

Cosa s'intende per "vitigno"?

Il termine vitigno indica una determinata varietà di Vitis Vinifera, atta a produrre vino che generalmente viene associata ad un territorio in cui è originaria o in cui è arrivata ad esprimere risultati significativi. 

I vitigni si possono distinguere per differenti forme e colori dei chicchi di uva, del grappolo e delle foglie, oltre che per differenti periodi di maturazione e soprattutto per le diverse caratteristiche organolettiche dei vini da essi ottenuti. 

In funzione del colore dell'acino si distinguono i seguenti vitigni:

  • a bacca nera (anche se il termine più corretto, dal punto di vista ampelografico, è di bacca rossa);
  • a banca bianca;
  • a bacca grigia

Per identificare un dato vitigno è necessaria prima di tutto un'accurata analisi e descrizione della forma delle foglie e dei frutti (grappoli); di questo si occupa l'ampelografia, disciplina che studia, identifica e classifica le varietà dei vitigni attraverso particolari schede ampelografiche che descrivono le caratteristiche dei vari organi della pianta nel corso delle diverse fasi di crescita.

La terminologia e le modalità d'impiego sono stabilite a livello internazionale. Tale studio sistematico ebbe inizio con l'agronomo latino Columella e si sviluppò con Pier dei Crescenzi nel XIII secolo e soprattutto con il Conte Odart che scrisse nel XIX secolo l'Ampelografia universale.

Oggi, a queste accurate descrizioni morfologiche, standardizzate dall'Organisation Internazionale de la Vigne et du vin si sono aggiunte le più accurate analisi del DNA. 

Numerosi vini vengono attualmente prodotti utilizzando una miscela di uve, per l'ammostamento, composte da differenti vitigni (uvaggio) oppure da una miscela di vini diversi per provenienza, invecchiamento o tipologia (taglio).

In Italia i vitigni più diffusi sono tra i rossi il Nebbiolo, il Sangiovese, la Barbera, il Primitivo ed il Montepulciano; tra i bianchi il Trebbiano, il Vermentino, la Vernaccia, il Moscato e la Malvasia.

Queste però sono le varietà di sicura origine italiana: molto diffusi e tra i primi posti della classifica anche gli onnipresenti vitigni internazionali. 

Tra i più famosi e diffusi nel mondo sono fra i rossi il Cabernet sauvignon, il Cabernet franc, il Merlot, il Pinot nero, lo Zinfandel e la Syrah; tra i bianchi il Sauvignon, lo Chardonnay, il Muscat ed il Riesling

Come si classificano i vitigni?

Una delle principali classificazioni dei vitigni avviene in base alla territorialità e alla loro origine storica.

A tal fine, in questo articolo si sentirà quindi parlare di:

  • Vitigni autoctoni: sono quelle uve che hanno un forte legame storico con il territorio dove vengono coltivate, il quale è molto limitato (una o due province al massimo). Ogni vitigno autoctono presenta una sua caratteristica e una distintiva forma e colore del grappolo, del chicco e delle foglie e conferisce al vino, da esso ottenuto, alcune caratteristiche organolettiche ben precise e tipiche.
  • Vitigni locali: sono vitigni diffusi in una zona più ampia della categoria precedente (più province e a volte anche un'intera regione) e che mantengono un forte legame storico con il territorio, ma magari si sono diffusi anche in zone diverse da quella originaria. 
  • Vitigni nazionali: sono uve originarie di una data regione che poi successivamente si sono diffuse in un'area molto più vasta del nostro Paese, fino talvolta a coinvolgere quasi tutta la Penisola fino a comprendere quasi tutto il territorio nazionale.
  • Vitigni internazionali: sono quei vitigni, spesso di origine francese, che si sono diffusi in tutto il mondo grazie alla loro versatilità e adattamento alle diverse condizioni ambientali. La loro fama e notorietà deriva dal fatto che il mercato mondiale del vino è stato inizialmente impostato dai produttori Francesi, anche se la realtà attuale è ben diversa fortunatamente. Questi vitigni danno origine a vini che, assieme alle caratteristiche varietali che li contraddistinguono, sommano delle caratteristiche tipiche del terroir nel quale vengono allevati. A loro volta queste possono derivare da fattori climatici o di composizione del terreno, oppure da fattori umani come la tradizione e le usanze in termini di coltivazione o processi enologici. 

I principali vitigni diffusi in Italia.

L'Italia è il paese europeo che offre la più ampia biodiversità viticola, quale risultato di antichi processi di domesticazione e di circolazione varietale. I vitigni che sono presenti nella nostra viticoltura, talvolta rappresentati solo da qualche esemplare, sono testimoni di una ricchezza che è in buona parte ancora sconosciuta dal punto di vista dell'utilizzazione viticola, che merita certamente di essere oggi valorizzata. 

Di seguito, riportiamo un elenco dei principali vitigni più diffusi e coltivati in Italia con una loro breve presentazione. 

ROSSI

Aleatico

E' un vitigno aromatico a bacca nera con un caratteristico colore blu - vermiglio. Predilige i terreni collinari, ben esposti e climi caldi e non ha un'abbondante produzione.

Il vitigno da vini di qualità sia secchi che dolci. Presenta un colore rubino, profumo intenso, fruttato e tendente alla confettura con la maturazione del vino nel corso degli anni. Al gusto è morbido, dolce e leggermente astringente. 

Cabernet Sauvignon

E' uno tra i vitigni più diffusi al mondo ed è particolarmente adatto per la produzione di vini di notevole qualità e grande longevità. La pianta manifesta capacità di adattamento alle più disparate condizioni climatiche e tecniche di vinificazione.

Da essa si producono vini ricchi di tannini e sostanze aromatiche che favoriscono un lungo invecchiamento; lunghe macerazioni e affinamento in legno che permettono di sviluppare nel tempo un bouquet complesso e affascinante. 

Il vitigno Cabernet Sauvignon predilige terreni poco fertili, maturazione tardiva e di produzione media ma costante.

Il vino è di colore rosso rubino intenso, tendente al violaceo, di corpo, alcolico, aromatico e con un lieve e caratteristico sapore erbaceo. Si affina notevolmente con l'invecchiamento, e vinificato con altri vitigni, quali il Merlot, ne migliora notevolmente le caratteristiche organolettiche. 

Merlot

E' un vitigno a bacca nera, il cui nome deriva dalla particolare predilezione che ha il merlo per le sue bacche.

La pianta ha robustezza notevole e produzione abbondante e costante, predilige i terreni collinari e freschi, con una buona umidità. L'uva Merlot produce un vino dal colore rosso rubino più o meno intenso, con aroma fruttato, e note di fiori rossi. Il sapore è abbastanza tannico, morbido e corposo.

Montepulciano.

E' un vitigno a bacca nera ed è di fatto l'emblema dei vitigni rossi del Centro - Italia, e a discapito del suo nome, non va collegato all'omonima località toscana.

Le migliori espressioni di questo vitigno si manifestano su terreni collinari argillosi con clima abbastanza caldo e asciutto, e spesso è utilizzato come uva da taglio per aumentare colore e corpo di altri vini.

La caratteristica principale di questo vino rosso sono i suoi profumi ampi ed intensi, eleganti e fruttati con note speziali, quali cannella, noce moscata e pepe nero.

Il colore è di un rubino profondo con riflessi violacei, tendente al granato dopo un lungo invecchiamento.

Al palato lo identificano la potenza, l'amarena, i frutti di bosco, ben accompagnata da un tannino, di trama fine ma ben strutturata, molto vigoroso e di lunga persistenza.

Nebbiolo.

E' il più antico vitigno autoctono a bacca nera del Piemonte, uno tra i più nobili e preziosi d'Italia.

Il suo nome deriverebbe da "nebbia": secondo alcuni perchè i suoi acini danno l'impressione di essere annebbiati, ricoperti dalla pruina abbondante; secondo altri, invece, perché la maturazione tardiva dell'uva spinge la vendemmia al sorgere delle prime nebbie d'autunno. 

Conosciuto anche come "la regina delle uve nere", ha bisogno di cure attente e laboriose, per questo motivo la sua coltivazione ha vissuto periodi di splendore e di offuscamento, ma non è mai stata abbandonata dai vitigni locali, consapevoli del pregio altissimo dei vini che se ne ricavano. 

E' molto esigente in fatto di giacitura ed esposizione al terreno, lavorazioni e concimazioni. I suoli calcarei e tufacei sono l'ideale per questo vitigno che germoglia precocemente tra la metà e la fine del mese di aprile.

Abbastanza sensibile agli sbalzi improvvisi di temperatura si avvantaggia delle oscillazioni tra giorno e notte in fase di maturazione ma la ricchezza dei tannini della sua buccia richiede posizioni collinari ben esposte al sole, preferibilmente tra i 200 e i 450 metri sul livello del mare.

I due vini principe prodotti con il Nebbiolo sono ovviamente il Barolo e il Barbaresco. Sempre in Piemonte altre denominazioni che impegnano il nebbiolo sono il Gattinara, il Roero, il Langhe DOC, il Ghemme, il Nebbiolo d'Alba, in purezza o in blend con altri vitigni. 

In generale i vini prodotti col Nebbiolo sono dotati di grandissima austerità, spessore e carattere grazie al grande patrimonio di zuccheri, acidi e polifenoli contenuti negli acini. 

I tannini sono potenti, ma grazie alle moderne tecniche di affinamento e maturazione e all'uso del legno, questi vengono ammorbiditi rendendo i vini apprezzati in tutto il mondo. 

Sangiovese.

Il Sangiovese cambia notevolmente le sue caratteristiche al variare dei climi e dell'altitudine in cui è coltivato.

Di produttività regolare, è un vitigno vigoroso a bacca nera che predilige terreni collinari di media o scarsa fertilità e asciutti.

Il vitigno produce un vino dal colore rosso rubino intenso fino al granato e, dopo un lungo invecchiamento, potrà assumere sfumature di tonalità aranciate. Tra gli aromi fruttati si distinguono prevalentemente i frutti rossi e neri, tra cui l'amarena, la mora e la prugna e inoltre si accompagnano aromi più floreali, in cui la violetta è il più caratteristico seguito dall'aroma di rosa. 

Di gusto tannico, corposo, aromatico, con un gradevole retrogusto amarognolo e fruttato.

BIANCHI

Chardonnay

E' un vitigno internazionale, di origine Francese. L'incredibile varietà di sue componenti aromatiche emerge in diversi modi; a seconda dei terreni e dei climi dov'è coltivato, si originano prodotti di qualità e di struttura molto diversi tra loro. La naturale predisposizione di questo vitigno a dare vini adatti all'affinamento in legno rende ancora più ampio il suo panorama degustativo.

Rientra nell'uvaggio dei migliori spumanti metodo classico del mondo e si presta anche ad essere assemblato con altri vitigni internazionali, dando ai vini struttura e profumi intensi e fruttati. 

E' un vitigno a bacca bianca di vigoria elevata, con produttività regolare e abbondante. Predilige i climi caldi, i terreni collinari e ventilati. La vendemmia è abbastanza precoce, nella prima decade di settembre. 

Dalle uve di Chardonnay si possono ottenere vini fermi, frizzanti o spumanti, con gradazione alcolica alta e acidità piuttosto elevata. Il colore del vino è giallo paglierino non particolarmente carico, il profumo, caratteristico, è delicato e fruttato, il sapore elegante e armonioso. Se invecchiato, assume note di frutta secca.

Glera

Vitigno autoctono semiaromatico a bacca bianca del Veneto e Friuli Venezia Giulia, chiamato Prosecco fino al luglio 2009 (oggi identifica il vino prodotto), è stato sostituito con il nome di Glera. 

Questo vitigno predilige terreni collinari non troppo asciutti, la foglia è medio grande pentagonale, il grappolo medio grande piramidale allungato piuttosto spargolo con due ali e con acini di un bel giallo dorato.

Il vino chiamato Prosecco è prodotto per l'85% con uve del vitigno Glera e per la restante percentuale da uve di vitigni quali il Verdisio, Pinot bianco, Pinot grigio e Chardonnay. 

Il Prosecco è conosciuto in tutto il mondo per le sue bollicine ed è lo spumante italiano più esportato; la spumantizzazione avviene con il metodo Charmat che permette di ottenere spumanti molto freschi e fruttati e il processo produttivo è più rapido rispetto al metodo Classico. 

La lavorazione di questo vitigno da vita alle DOCG "Conegliano Valdobbiadene Prosecco", "Colli Asolani - Prosecco", "Colli di Conegliano - Torchiato di Fregona Passito"

Il vino ha colore giallo paglierino brillante con persistente perlage, al naso è fruttato, floreale e vegetale di mela, pera, agrumi, crosta di pane e lieviti, al palato è secco o amabile, sapido e fresco.

Maceratino

Il vitigno viene coltivato da secoli nelle Marche e, in particolare, nel Maceratese, da cui ne deriva il suo nome.

Uva a bacca bianca, offre rese elevate e costanti e una notevole facilità di coltivazione grazie ad una sua estrema adattabilità sia alla natura del terreno che alle diverse condizioni ambientali di clima e di esposizione. 

La pianta da un vitigno giallo paglierino piuttosto pallido. Al naso appare solo lievemente profumato, mentre al palato è neutro, sapido, asciutto, con poco corpo.

Malvasia.

Con il nome Malvasia vengono indicati molti vitigni, la maggior parte a bacca bianca, geograficamente distribuiti un po' in tutta Italia. Sebbene di origini diverse, tutti questi vitigni condividono alcune caratteristiche di base quali la fragranza piccante di muschio e di albicocca e residui zuccherini piuttosto alti. 

Queste caratteristiche rendono i vitigni del gruppo delle Malvasie particolarmente adatti alla produzione di spumanti e di passiti. Il vitigno Malvasia ha abbondante robustezza e maturazione medio - tardiva.

Il vino è di colore giallo paglierino, sapido, con una buona acidità e lievemente aromatico. E' utilizzato anche per la produzione di Vin Santo.

Moscato Bianco

Il vitigno Moscato Bianco ha una produzione costante e tollera bene la siccità estiva. L'uva, raggiunta la sua maturazione, ha una dolcezza molto marcata e per questo motivo è soggetta ad attirare le vespe ed altri insetti. 

Il vino del vitigno è di colore giallo paglierino, intensamente aromatico, fragrante e muschiato al naso. Si presta bene sia all'appassimento che alla spumantizzazione, ma anche all'utilizzo come base per vini liquorosi.

Meno diffuso in Italia rispetto al Moscato Bianco, il Moscato Giallo è utilizzato sia come uva da tavola sia per la vinificazione per vini dolci spumanti o passiti, talvolta in versione secca come vino fermo.

Questo vitigno ha elevata vigoria, una maturazione precoce e una produzione buona e regolare. Il vino del Moscato Giallo ha un colore che varia dal giallo al giallo oro, al naso risulta gradevolmente aromatico, con un profumo di uva moscato e un sapore marcatamente dolce. Spesso presenta sfumature di agrumi e mele al forno. 

Passerina

Pianta autoctona del sud delle Marche, l'uva prodotta viene chiamata con vari nomi tra cui: "pagadebito, "campolese" o "uva passera".

L'uva passerina è resistente e produttiva, la sua maturazione è tardiva e i suoi acini, di colore bianco, si presentano di piccole dimensioni. Il vitigno da un vino di colore giallo paglierino con riflessi dorati. 

Al naso è fruttato con note di frutta tropicale e floreale con note di ginestra, pino ecc. E' provvisto di una buona acidità ed ha una polpa particolarmente gustosa. E' prodotta nelle versioni ferma, frizzante e passita.

Pecorino

Il vitigno è una pianta autoctona delle Marche, in particolare delle aree del Piceno. Predilige i climi freschi ed il suo nome deriva dal fatto che i luoghi in cui veniva coltivata erano collinari, gli stessi in cui era ampiamente diffusa la pastorizia. 

Vitigno a bacca bianca è di maturazione precoce. Dall'uva Pecorino si produce un vino dal colore giallo carico, con riflessi verdolini, con buona mineralità ed acidità, che vengono in parte nascoste dalla buona morbidezza. 

I profumi sono di pera William e anche al gusto abbiamo l'identico richiamo.

Pinot Grigio.

Appartiene al gruppo dei vitigni Internazionali, di origine francese ed ampiamente coltivati in Italia e in tutto il mondo. L'uva dà un vino di colore giallo paglierino con riflessi dorati se vinificato in bianco, diversamente se vinificato a contatto con le bucce assume il naturale tono aranciato. Al naso è lievemente profumato, fruttato, asciutto, alcolico, morbido, fresco, armonico ed equilibrato. 

Il gusto è gradevolmente morbido ma assume un sapore leggermente amarognolo se vinificato in ramato.

Non ha particolare predisposizione a lunghi affinamenti.

Trebbiano

E' una pianta caratterizzata più dalla produttività che dalla personalità, e anche grazie alla spiccata acidità che conferisce ai vini, si presta all'appassimento. 

Il vitigno Trebbiano ha una grande vigoria ed epoca di maturazione tardiva. La sua produttività è abbondante e regolare, predilige terreni non molto fertili e poco caldi, non siccitosi. 

L'uva da un vino giallo paglierino, non molto intenso al naso, non fortemente caratterizzato al palato, fresco per acidità, abbastanza caldo e di medio corpo.

Verdicchio.

E' un vitigno a bacca bianca coltivato quasi esclusivamente nelle Marche, sulle colline tra Jesi e Matelica.

La sua uva è utilizzata per produrre sia vini freschi, sia vini molto strutturati capaci di notevole longevità. 

Si presta particolarmente bene anche alla produzione di spumanti naturali e vini passiti. E' un vitigno piuttosto duttile, ha una maturazione medio - tardiva, una buona e costante produttività ed è adatto alle più diverse tecniche di allevamento e di vinificazione. 

Il vino prodotto è di colore giallo paglierino con riflessi verdognoli. Al naso è fruttano, con note decise di mandorla amara. Al palato è fresco, sapido, di corpo, adatto anche a brevi invecchiamenti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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La Viticoltura in Provincia di Belluno.

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In Provincia di Belluno la coltivazione della vite risulta la meno rappresentata a livello regionale, ma nei diversi periodi storici non è stato sempre così.

Pur non avendo mai ottenuto una produzione paragonabile a quella di altre province venete, il Bellunese ha vissuto dei periodi di florida coltura.

Già nel XII secolo la vite doveva essere ben rappresentata nel circondario di Feltre, nella valle d'Alpago e nella valle del Piave, come testimonia un'antica bolla del Papa Lucio III (1184) in cui vengono citati in quel di Fonzaso, lasciti di terreni al Vescovo di Belluno "cum vineis".

Verso la fine del 1700 i lavori di Antonio Frigimelica e dell'Abate Carlo Lotti riportavano consigli sulle tecniche per ottenere dei vini più maturi, capaci di raggiungere gradazioni zuccherine maggiori e una riduzione dell'aspro.

Quasi tutti gli autori storici di questo periodo sono d'accordo nell'identificare nel feltrino la zona vocata alla coltura della vite.

A tal proposito, si ritrovano diverse citazioni negli Annali dell'Agricoltura che in una memoria raccolta da Filippo Re ricorda come nel "Cantone di Belluno vi alligna la vite ed il gelso, negli altri cantoni no". 

Importanti sono anche le citazioni di Jacopo Volpe (segretario della Camera di Commercio di Belluno), il quale riporta come "la coltivazione della vite non è molto estesa in provincia, ae anzi facendo il rapporto con quella occupata dalle viti si calcola dell'1,19%; ma bisogna notare che se la parte maggiore del territorio non permette la vegetazione di questa pianta, invece una porzione di distretto, cioè i due Comuni di Fonzaso ed Arsiè, dove si può dire unica la coltivazione della vite e principalissimo il prodotto del vino" (J. Volpe, 1880).

In questo periodo avviene un cambiamento che determinerà il momento d'oro della viticoltura nella Val Belluna e, in particolare, nel feltrino.

L'arrivo delle principali malattie americane (oidio, peronospora e fillossera) sarà prima il motore e successivamente la rovina della viticoltura del bellunese.

Negli anni della comparsa dell'oidio il Volpe scrive così "del solo distretto di Fonzaso la crittogame della vite non si estese e fu appunto allora che la coltivazione della vite prese largo sviluppo e si abbandonò ogni altra coltura per attendere a questa solo, facendo piantagioni dappertutto, persino sui dossi scoscesi di aspre montagne. In quell'epoca l'esportazione del vino di Fonzaso ed Arsiè ebbe una grande vivacità, e i prodotti di questi due Comuni si smerciavano in molte piazze del Veneto, come i migliori e a prezzi favolosi" (J.Volpe, 1880).

Nel 1884 l'arrivo della peronospora trovava la viticoltura in una situazione vitale come si può constatare da una relazione dell'allora Sindaco del Comune di Fonzaso del 1886: "Una lunga zona di territorio nel comune di Fonzaso e in quella di Arsiè è coltivata a vite, ed è una estesa assai importante, e puossi dire che dieci e più mila abitanti ritraevano dalla vite i mezzi di sussistenza di almeno nove mesi all'anno".

Nemmeno la terribile crittogama, distrusse la presenza della vite, anche soprattutto grazie ai progressi della lotta chimica divulgata nel feltrino dall'Abate Candeo.

In questi anni si ha anche l'introduzione dei vitigni internazionali (la Borgogna bianca e nera; il Riesling), nonché la comparsa di specie ibride quali l'Isabella e la Katawa rosa. 

I vini dell'epoca avevano caratteristiche qualitative discrete almeno da quanto riportato da Bajo: "il vino più robusto discretamente fabbricato e conservato bene si avvicinava al Valpolicella ed al Chianti, ne si discosta gran fatto dai vini dell'alta Borgogna, della bassa Austria e dell'alto Reno... intorno alla media di 12 e 13 gradi si mantiene l'alcol nei vini migliori di Fonzaso".

Definitiva per il futuro della viticoltura bellunese fu invece la comparsa della fillossera della vite: dal 1922 al 1936 l'effetto devastante dell'afide cambiò definitivamente la consistenza enologica del feltrino. 

La sostituzione delle viti con barbatelle innestate su "piede americano" viene datata nel 1960 e ha avuto fondamento scientifico nell'impegno della Regia Scuola di Enologia di Conegliano e della Stazione Sperimentale di Viticoltura e di Enologia di Conegliano, soprattutto con la costituzione di campi sperimentali con varietà sia di Vitis Vinifera che ibride.

Le zone più indicate alla coltivazione della vite si confermano quelle identificate precedentemente dagli altri autori: "la coltivazione della vite in specializzazione è concentrata nei comuni di Arsiè e Fonzaso. Altre zone intensamente vitate sono: Mugnai di Feltre, Bastia, Figur di Quero, Fener di Alano di Piave, Centro e Madoneta di Vas, Guizze di Seren del Grappa. Il rimanente territorio coltiva la vite in promiscuità con seminativi e con prati permanenti" (Rizzotto, 1961). 

La coltivazione della vite nel Feltrino.

Era il 24 febbraio 1518 quando Gerolamo Borgasio chiese l'approvazione degli statuti dei vignaioli dell'Aurin, un colle situato a pochi chilometri ad ovest di Feltre.

L'approvazione fu ottenuta con un'ampia maggioranza di voti; in questi documenti erano contenute regole sia tecniche (ad esempio era imposto che la vendemmia non avvenisse prima del giorno di San Michele, ovvero il 29 settembre) sia riguardanti i rapporti tra singoli produttori e tra questi e i boscaioli, che dovevano prestare la massima attenzione e cura a non danneggiare le vigne nello svolgimento del loro lavoro quotidiano.

Nel 1639 Giovan Battista Barpo, decano del Capitolo della Cattedrale di Belluno, concludeva la propria opera in tre libri dal titolo "Le delizie e i frutti dell'agricoltura e della villa"

Nel Libro Secondo - Tratto Quinto - di quest'opera, si legge: "Le viti amano più la collina o altri luoghi ben soleggiati e non già quelli freddi, paludosi, salmastri, ventosi ed ombrosi" e ancora "Chi vuole le nere, chi le cameline, chi le bianchette, chi le verdegne: se vuoi far presto e bene, dedicati alle nostrane e piglia sempre sarmenti locali per ripiantarli il più vicino possibile alla tua villa, ed in posto a dislocazione simile alla vigna da cui proviene il vitigno che trapianti".

Appare evidente che la viticoltura in Provincia di Belluno ha una storia di molti secoli, come dimostrato anche dalla presenza di un grappolo d'uva nello stemma del Comune di Seren del Grappa, paese sito allo sbocco dell'omonima valle, esattamente collocato di fronte ad alcune zone più vocate alla coltivazione della vite.

E oggi...

Oggi questo territorio regala attraverso il lavoro dell'uomo molteplici prodotti di eccellenza: dai fagioli, al mais, dall'orzo alle zucche, dal miele alle nocciole e ad altre numerose varietà di frutta e diversità orticole.

Diverse sono le occasioni per incontrare e assaporare questi frutti delle terre feltrine. In particolare, si ricorda l'Antica Fiera di San Matteo, una mostra - mercato dalle antiche origini che viene ogni anno riproposta in occasione della seconda domenica di novembre, dedicata in particolare alla noce di Feltre e ad altri prodotti agricoli locali e tradizionali. 

In questi ultimi anni è stata ripresa, con particolare attenzione, la coltivazione della vite anche con il recupero di antiche varietà autoctone e di terreni un tempo coltivati a vigna.

Attualmente 10 sono le Aziende Agricole che coltivano vigneti in provincia di Belluno; alcune hanno scelto di puntare interamente su Bianchetta e Pavana mentre altre hanno preferito diversificare i vitigni autoctoni con gli internazionali. 

Tra queste dieci coraggiose aziende, quattro hanno deciso di affrontare (o in due casi di mantenere) anche la trasformazione delle uve in vino e la sua successiva commercializzazione: De Bacco, De March, Pian delle Vette e Vieceli, ottenendo anche alcuni importanti riconoscimenti a livello nazionale ed internazionale.

 

 

 

 

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